Ci sono giorni che ti migliorano la vita, altri che te la peggiorano. Tutta la vita è fatta di quattro o cinque di questi giorni che, inevitabilmente, te la cambiano.
In quel momento non pensai più a niente. Le luci erano tutte accese. Centinaia di occhi erano puntati su di me. Sapevo che nessuno si aspettava chissà quale miracolo o grande cantante. Neanche io. La saliva cominciò a scarseggiare, il microfono a tremare nelle mani. Il silenzio intorno. “Oh, ma chi se ne frega? Adesso spacco tutto!”. Sperai che non si fosse sentito. La base cominciò a diffondersi in sala. La prime battute furono incerte, nella voce qualche fremito. Poi chiusi gli occhi e mi gettai in un mondo misterioso, tutto mio. Non pensai alla tecnica, al diaframma, al pubblico. Soltanto ad emozionarmi.
Sono nata il tre gendaio mille-quandocendo-novanta o, almeno, così rispondevo quando me lo chiedevano da piccola. I miei avevano due anni più quanti ne abbia oggi io, quando dissi buongiorno alla vita. L’ostetrica mi presentò agli occhi stanchi, emozionati di mia madre e mio padre: mi feci conoscere con un suono, e forse qualche lacrima.
Che quello schiaffetto in sala parto sia stato l’inizio di tutto?Che quel suono sia stato il preannuncio del mio futuro?
Sono cresciuta felicemente in una casa modesta, circondata da nonni e bisnonni affettuosi e rompiscatole. Cucinavo il fango, i fiori, qualche insetto. Avevo amici immaginari che ogni giorno mi aspettavano sotto il melo affianco al cancello; una jeep bianca modificata da mio padre perché andasse più veloce; un gatto-tigre che portavo a spasso nel cestino della bicicletta fosforescente. E la sera mi addormentavo arricciando i boccoli di mamma che mi coccolava cantando: “Allora ti chiamerò trottolina amorosa du du da da da”. Passarono i giorni, e pian piano, cominciai a cantare con lei. “E il tuo nome sarà il nome di ogni città, di un gattino annaffiato che miagolerà…”.
Alcuni lo chiamano caso, altri destino, fatto sta che la musica non mi abbandonò mai. Il pestello del mortaio divenne un microfono, le canzoni in inglese pura invenzione, le sigle dei cartoni animati una cassetta registrata, e nascosta chissà dove negli anni successivi per eliminare le prove di quello spettacolo divertentissimo e imbarazzatissimo al tempo stesso. Nel frattempo cominciai a suonare. I miei si erano accorti che quando ascoltavo le canzoni, mimavo con le dita una melodia tutta mia. Non mi regalarono una normale tastiera, ma la pianola, il che è praticamente la stessa cosa, soltanto che, se a sette anni ti regalano la tastiera-pianola, ti senti come se tra le mani avessi uno Stradivari.
Credo che la mia passione sia sempre stata appoggiata, ma anche sopportata, dai miei poveri coinquilini, a volte martiri. Innumerevoli sono le torture inflitte a mio fratello a causa della mia mania di cantare la prima canzone che mi passa per la testa, ininterrottamente, da mattina a sera, e anche oltre… Può sembrare folle, ma mi capita di svegliarmi in piena notte perché ad un tratto è saltata fuori l’ispirazione per qualche nota particolare, per quella canzone che avevo cercato di ricordare con le amiche nel pullman durante il viaggio di ritorno da scuola. Allora, con gli occhi chiusi, per non perderla, a tentoni sul comodino, cerco il cellulare o l’iPod per registrare la mia voce roca e sotto tono; per poi riascoltarla quando è giorno, e ricantarla di nuovo, ininterrottamente, per tutta la giornata, facendo saltare i nervi a tutti.
Ma io non sono solo questo. So di risultare spesso antipatica; quella con la puzza sotto al naso perché “va al liceo classico, e allora capisce di più”. Io sono quella che a Natale, dopo aver finito di lavare i piatti a casa dei nonni, va via perché non può sopportare quei parenti che vedi una volta all’anno, che se ne escono con la battuta sbagliata nel momento sbagliato; sono quella che prende in giro la ragazze pon pon, le miss Italia di turno per le loro patetiche lacrime al momento dell’incoronazione. Sono quella che in camera tiene il poster di Falcone e Borsellino, di Giovanni Paolo II, e di Raoul Bova.
Per questo lato “combattivo” del mio carattere mia madre dice sempre: “Beh, siccome fai sempre l’avvocato dei poveri e delle cause perse, iscriviti a giurisprudenza! Per il resto c’è tempo… Amore mio, col canto non si mangia!”.
Che sia arrivato il momento di mettersi a dieta? È da quel 22 febbraio 2007 che ci penso. Arrivai alle audizioni del mio primo concorso di canto. Dal cortile che dava sul parcheggio si sentivano le note di coloro che già erano davanti alla Santa Inquisizione. Ad un tratto qualcuno chiamò il mio nome, ovviamente sbagliandolo.
Feci largo tra la folla che cercava “Immacolata” ed entrai nella saletta.
“Porti Celine Dion? Devi essere molto sicura di te per rischiare con un pezzo del genere!?”.
Ti pareva che non capitava la giurata stronza?
“Non lo sono affatto, forse è per questo che ci provo. È una sfida con me stessa!”. Tiè.
Presi il microfono e li guardai ad uno ad uno, diritto negli occhi. Feci un cenno all’uomo del mixer, e mi sfidai.
Uscii col fiato in gola. Papà, che mi aveva accompagnato, mi venne vicino e mi abbracciò. Aveva una strana luce negli occhi, forse quella dei genitori orgogliosi dei figli. Ovviamente mi venne un groppo in gola come in tutte le situazioni in cui invece dovrei restare impassibile. “Beh, da quello che ho sentito, secondo me qualche posto buono lo hai fatto! Brava!”.
Il pomeriggio sembrava non passare mai. Il verdetto si sarebbe saputo soltanto la sera. E la sera arrivò. In platea si sentiva l’odore stantio delle poltrone di moquette azzurra, lo scricchiolare delle patatine di mio fratello; vedevo gli organizzatori correre come soldatini, soltanto che al posto delle armi portavano varie coppe di svariate dimensioni.
Non so nemmeno come, fui sul palco, e in quel momento non pensai più a niente. Centinaia di occhi erano puntati su di me. Sapevo che nessuno si aspettava chissà quale miracolo o grande cantante. Neanche io. La saliva cominciò a scarseggiare, il microfono a tremare nelle mie mani. Il silenzio intorno. “Oh, ma chi se ne frega? Adesso spacco tutto!”. Sperai che non si fosse sentito. La base cominciò a diffondersi in sala. La prime battute furono incerte: nella voce qualche fremito. Poi chiusi gli occhi e mi gettai in un mondo misterioso, tutto mio. Non pensai alla tecnica, al diaframma, al pubblico. Soltanto ad emozionarmi.
Non controllai l’incontrollabile. Primo posto.
Piansi lacrime di felicità.
Lo prometto: non prenderò più in giro Miss Italia!